domenica 14 luglio 2013

Ho sentito sti tipi che si chiamano Telstar Sound Drone

Sono 10 giorni buoni che non riesco a togliere questo disco dal lettore in macchina. Sono affetto da febbre da drone.
Drone fever.
Una patologia che ti avvolge, ti intorpidisce, deforma vagamente il flusso mentale sul letto dei pensieri.
Tutto legale, anche se sono arrivato a pensare che se mi avessero fermato i carabinieri coi Telstar Sound Drone a cannone, magari qualche grana l'avrei passata. "Comedown" è il loro album uscito per la danese Bad Afro, già "casa" dei Baby Woodrose e di vari altri stonati nordeuropei.
I Telstar Sound Drone condensano una potentissima formula psichedelica, decisamente "rock" (ma quanto è vetusto questo termine?), introducendo una base di suono ripetuto, riverberato, ritardato, circolare, con un cantato vicino ad un delirante mantra. Meno velocità, più effetti, più pedali, come fosse un aumento progressivo della dose. Nei drones trovano l'estasi i popoli orientali e mediorientali, nel drone aggiornato e corretto si perdono le coscienze nel 2013.
"Comedown" è un viaggio primitivo nelle dilatazioni, nei loops e negli echi. Come un materiale a prevalenza minimalista, sottoposto ad un bagno 13th Floor Elevators, una zincatura Spacemen 3 e un lancio "spaziale" in stile Kraut. Istantanee e frammenti in slow motion di deserti, legami chimici, lavori all'esterno di sonde spaziali, vulcani in sobbollimento, centrali nucleari e landscapes lunari.
Tutto concentrato in 7 lunghe composizioni strutturate e stupefacenti.
Sicuramente una delle migliori uscite neo psichedeliche degli ultimi mesi. Davvero, provate ad ascoltarlo perchè vale.

lunedì 1 luglio 2013

Ho sentito sti tipi che si chiamano Paris Angels

Ci sono suoni per i quali "fare click" è semplicissimo. I Paris Angels furono una formazione inglese di inizio anni 90, difficilmente inquadrabile. Non erano completamente votati alla chimica dance-rock di Happy Mondays e compagnia sballante, non erano così ortodossi come gli Stone Roses. Stavano giusto nel mezzo, e raccoglievano in maniera molto "ecstatica" certi umori provenienti dalla wave del decennio precedente. Furono una specie di brezza fresca in una scena molto calda. Il loro singolo più celebre si chiamava "Perfume", ed è incluso in ogni lsiting che si rispetti, in ambito primissimi anni 90.
Incisero un solo, bellissimo album, "Sundew" (1991), una specie di girandola con bracci colorati, fatta girare a folle velocità.Queste furono le indefinite e irripetibili tinte di Madchester.
I Paris Angels nel 1992 incisero anche un secondo album, dal titolo "Eclipse", che non vide mai la luce per una serie di non meglio precisati motivi.
E già da qui, avrete capito...
C'è qualcosa di rimasto lì.
Un nastro impolverato, che chissà cosa contiene.
Beh, innanzitutto un primo singolo pazzesco. Si chiama "Door To Summer", e verrà riportato alla luce dai tipi della Stereokill Recordings. Io ho avuto la fortuna di averne una copia promozionale, e questa roba suona come se fosse stata scritta ieri.
Sì, ma come suona? E' difficile da descrivere e facile da ascoltare. Pop, molto pop. Qualche retrogusto Style Council? Forse. Qualcosa di indie pop minore, tipo Railway Children? Sì, un pizzico. Una ritmica sostanziosa, ma comunque rilassata, un loop di flauto, delle backing vocals molto soulful, un riff di chitarra leggero, groovy, percussioni, fiati... una canzone che apre le porte all'estate, come le aprirebbe uno che a Manchester si becca pioggia tutto l'anno. Con una gioia onesta e autentica. A questo punto si fa davvero fatica ad aspettare l'uscita della ristampa di questa piccola gemma rimasta negli archivi. Chissà quanto di buono c'è ancora da scoprire. Nell'attesa della reissue di "Eclipse", "Door To Summer" è un piccolo manifesto, che vedrà la luce il 22 luglio su tutte le piattaforme digitali. Sorridi, sei ancora nel 1992!

When you press play, sometimes is so easy to immediately click.
Paris Angels were a band coming from Manchester area in the early 90s, their music was very hard to pigeonhole. They were not that dance rock like Happy Mondays, and they were not in a way traditional as the Stone Roses were. They were right in the middle, picking up even some wave elements in a very "ecstatic" way. They were like a fresh breeze in a steaming scene. Their most famous single was "Perfume", and it's included in almost every "genre listing" with a "indie/Madchester" direction.
They cut this beautiful debut album called "Sundew" back in 1991, which inhaled that unique Madchester flavour, mixing it with a strong band identity.
Paris Angels recorded a second album named "Eclipse" in 1992, but that recordings never saw the light.
You know how the story goes.
Something to be discovered finally comes out, maybe in the form of a dusty old tape.
With a brilliant opening single.
Believe me, this is really beautiful in the meaning of the word: "Door To Summer" will be released by Stereokill Recordings and I've been lucky enough to receive a promo copy from them.
How does it sound like? Hard to describe, simple to listen to. Pop, mostly. With some Style Council flavour? Maybe. Any obscure indie pop a la Railway Children? Yes, a bit. A dynamic rhythm pattern, a laid back feeling, a flute loop, soulful backing vocals, groovy guitar riff, brass, percussions... everything you need to open the door to the summer, after a soaked up year long in Manchester. This song is pure, joyful class.
It's hard to wait for the entire album to come out. Take "Door To Summer" as a manifesto and smile, it's 1992 again! Out on July 22, on all good digital outlets.

martedì 4 giugno 2013

Ho sentito ste tipe che si chiamano Savages

Tante volte la curiosità per un disco o per un suono nasce da un presunto messaggio che il disco o il gruppo millanta di portare avanti.
C'è stata tutta la generazione della Summer Of Love, poi il Punk, che fece dell'assenza di messaggio il "metamessaggio", poi la menata dei cantautori impegnati, poi ci sono tutta una serie di personaggi che a quel messaggio stanno attaccati per tirare avanti (mi vengono in mente, senza ordine alcuno, gente come Rage Against The Machine, o 99 Posse per volare più basso sul rivouzionario a basso costo).
Ebbene, siamo nel 2013 e detto francamente dei messaggi ne abbiamo anche piene le palle.
Non che cercare di dare un senso alle cose abbia perso di senso, ma è ora di smetterla di fare i Bono della situazione, o di farsi scudo con un antifascismo che garantisce dreadlocks, canne e contributi SIAE. Oppure di subire grottesche maschere da concerto del primo maggio.
Il problema è sottile, e trovare un nemico sui generis è veramente l'ultima delle esche per far abboccare una folla di consunti "alternativi" fuori tempo massimo.
La linea tra buoni e cattivi è sempre più sfocata di questi tempi.
Il problema è molto più localizzato, perchè chi risponde al "messaggio" dei grandi (o piccoli) idoli rock è inesorabilmente condannato a rispondere a comando ad una serie di stimoli preconfezionati.
Quello che mi ha affascinato dall'inizio, per quanto riguarda le Savages, è il fatto che loro si autodefiniscano una post punk band di Londra. Niente voli pindarici. Questo è ciò che sono, e che suonano.
Sulla copertina del loro album "Silence Yourself" c'è una specie di monologo che invita a far silenzio, abbassando il brusio della vita, le tremila distrazioni che per un motivo o per l'altro tendono a distogliere l'attenzione da un pensiero. La radio, le auto, il messaggio sul telefono, internet, la musica diffusa in un centro commerciale, le voci sovrapposte come un robusto tessuto nei luoghi pubblici.
Tutto questo va a sfavore della concentrazione. Quand'è stata l'ultima volta che avete ascoltato un disco nel silenzio più totale della vostra casa? Quand'è che non l'avete fatto dalle casse di un pc, o su un mezzo pubblico con un lettore mp3, o in macchina? Io probabilmente dall'estate del 93...
Facebook, il telefono, il campanello, il frigorifero, l'alternarsi caotico di immagini, discorsi, urla, zapping e stronzate in TV... pensate a quanto sareste più solidi senza dover stressare i cinque sensi per rispondere a tutte le sollecitazioni.
Pensate a quanto sia tutto meno intenso se vissuto in superficie, prestando occhi e orecchie a tutto ciò che gira vorticosamente intorno.
Ho pensato per giorni a questa cosa:
che poi sarebbe il monologo sulla copertina del disco delle Savages.
"Tu sei distratto / Tu sei disponibile"
E poi mi sono messo ad ascoltarlo, questo album. Che è onesto come dire "we're a post punk band from London". Un citazionismo serio, austero, come se il tempo non fosse mai passato. E di fatto una lugubre liturgia new wave è, come sostengo da tempo, un perfetto metronomo a scandire ore del 2013.
Le Savages non regalano sorrisi, non sono particolarmente belle, e vivono di continui rimandi al mondo di Joy Division e Siouxsie. Alla fine "Silence Yourself" è proprio un mix di queste cose: ben fatto, compatto, angosciante, apocalittico.
Il fatto che siano una "all girl band", è secondario, e questo è già abbastanza. Non siamo di fronte all'ennesima riesumazione delle inutili e sguaiate Riot Girls, che innescano un brutto meccanismo di sessismo al contrario. Non sono brave perchè sono donne. Sono brave perchè dicono delle cose, indipendentemente dal contenuto tra le gambe.
E' facile cedere a "Silence Yourself", perchè picchia duro sui nervi, svapora con qualche nota di sax, contrae nuovamente le atmosfere con accenni addirittura heavy metal.
E' la miglior dimostrazione di come la musica possa far passare un messaggio senza cacciarlo giù per la gola. Propugnando il silenzio.
Più sei concentrato, più sei pericoloso. E' per quello che continuano a distrarti.

giovedì 9 maggio 2013

Ho sentito sti tipi che si chiamano Bo Ningen

Non nascondo di essere soggetto ad un certo "esotismo" degli ascolti. Mi fa cacare il concetto leccato e virtuoso di "jazz", così come non sopporto il concetto di "world music". Però non chiudo a prescindere le frontiere geografiche. Se il jazz è è John Coltrane, Sun Ra, o Archie Shepp, benvenuti. Se la world music è Fela Kuti, la Tropicalia, o le Ethiopiques, ok, ben vengano. Sarei rimasto un mostro di ignoranza se non avessi fatto qualche incursione nei nomi di cui sopra.
Ebbene, parliamo di estremo oriente.
Io, come già detto un paio di volte, arrivo sempre tardi. Già Julian Cope ebbe la lungimiranza di studiare e approfondire, col suo Japrocksampler. Ma Julian Cope è il druido.
Io sono uno che scrive software per mangiare e per comprare dischi, e tengo un blog che leggono quattro gatti. Però quando scopro qualcosa di nuovo, mi sento un pioniere, uno che approda in un posto mai visto e rimane completamente sbigottito. E credo che sia un modo giusto di approcciarsi. Non facciamo come quegli italiani che vanno in giro per il mondo e mangiano solo italiano, se mi passate il paragone musicale adattato al cibo.
Insomma, ho scoperto questa band che in Italia credo sia completamente sconosciuta. Non ho trovato nulla in rete a proposito. Loro si chiamano Bo Ningen, sono giapponesi, di stanza a Londra.
Strana storia la loro: molto giovani, si trasferiscono, ognuno in maniera indipendente, dalla terra dei samurai alla capitale del Regno Unito, per studiare. 
Si incontrano, e formano una specie di piccola enclave nipponica. Forse lo stimolo della metropoli, forse chissà che cosa, insomma che decidono di formare un gruppo rock. Molto lontano dagli stereotipi che Londra offre ed ha offerto sinora. Niente cappelli borsalino, jeans stretti, giubbetti di pelle.
Strano albero quello dei Bo Ningen: le radici in Giappone, il fusto a Londra, i frutti nella Germania del krautrock.
Il loro secondo album (quello col quale li ho scoperti) si chiama "Line The Wall" ed esce per una microetichetta londinese chiamata Stolen Recordings, patria di artisti decisamente più hipster.
I Bo Ningen sono piuttosto ostici: prima di tutto c'è da rompere una grossa barriera, ovvero la lingua. Con una scelta piuttosto azzardata, scrivono e cantano pezzi in giapponese. Ai primi 5-6 ascolti sembra di ascoltare la sigla di Mazinga in salsa psichedelica. Confesso di aver passato qualche ascolto in macchina con la radio a cannone a pensare: ma che cazzo sto facendo?
Però è giunto il tempo di uccidere le certezze, come insegna il mondo di oggi. 
Quindi sotto, ascolto su ascolto. 
I'idioma giapponese non è consolante come il solito ripetersi di rime in inglese. E' invero piuttosto minaccioso, con una metrica iterativa, ipnotica, che ben si adatta alle costruzioni ritmiche e strumentali dell'album.
Tutto l'impasto fa un effetto allucinante, detto in senso non ironico: "Line The Wall" suona proprio come un'allucinazione, fatta di ripetizioni ossessive (un po' come fecero i Can di Damo Suzuki, guarda caso anche lui giapponese), strani intrecci di chitarre distorte, basso e batteria a inseguire ideogrammi ritmici indecifrabili. E queste linee vocali a volte trasformate in una specie di grido, che seguitano a sillabare nulla di comprensibile. L'album rimane sempre nel campo (molto) allargato della musica ascoltabile, ma offre sicuramente una prospettiva nuova, non trascurabile. Se è necessario attraversare un continente e mezzo per arrivare a questi suoni, vale sicuramente la pena. 
Senza arrivare agli estremi di Zeni Geva (imperdibili dal vivo), Boredoms, Acid Mothers Temple e compagnia psicotica cantante, oppure all'utrapop di Pizzicato Five e 5678's i Bo Ningen offrono un buon compromesso. Sono assolutamente "alieni", anche se in qualche modo legati alla matrice "rock". Non sono eccessivamente "retromaniaci", e neppure troppo futuristi, rarefatti e senza senso. Diciamo che sono distopici. Come certi romanzi di fantascienza, in cui ti sembra sempre che qualcosa ti stia inseguendo nell'ombra. Molto bene.

domenica 28 aprile 2013

Ho sentito sti tipi che si chiamano The Soft Boys aka collezionare è una cosa seria.

Avete mai visto quei programmi imbarazzanti su DMAX o Real Time, quelli coi disperati che hanno la mania dell'accumulo? Ecco, musicalmente parlando sono murato vivo con blatte e casse di carabattole. Non so bene perchè, ho sempre meno tempo, ma in questo periodo ho un forsennato bisogno di fare pile di roba da ascoltare. Ho comprato almeno una ventina di titoli, ne avrò ascoltati sette, ma è come se ci fosse una guerra alle porte e io avessi bisogno di scatolette di tonno, pasta, acqua. A metà settimana dovrebbe arrivare l'ultima derrata. Poi ho un paio di titoli in preordine.
Poi smetto.
Si, vabeh.

Sabato ho fatto una puntata al mio negozio di fiducia. Ho avuto accesso ad una serie di scatole di CD usati, nel retro.
Ho trovato "Underwater Moonlight" dei Soft Boys. Uno degli avventori del negozio, mio conoscente nonchè persona di gusti sopraffini mi ha mostrato il pollice, magnificando la qualità della ristampa su Yep Rock. Lo cercavo, ma non in maniera compulsiva: l'ho trovato, ad un ottimo prezzo. E' stato destino.
Il disco, di per sè, è un piccolo capolavoro.
Robyn Hitchcock come Alfred Hitchcock, ma per la psichedelia.
Anno di grazia 1980.
Esattamente quello che hai voglia di ascoltare in un weekend lungo con un tempo incerto. La forza di questa band (e in parte anche quella di coevi come Echo And The Bunnymen) è l'approccio totalmente naif alla materia.
Questo è il vero "rock alternativo": non una costruzione perfetta che riproduca che ne so, i Pink Floyd di Syd Barrett o i Beatles di Sgt. Pepper dei 60s, ma una decontesualizzazione (il periodo del post punk) in cui si inseriscono pigmenti quasi casuali, suoni lisergici "sbagliati", fuori tempo massimo con gli originali e troppo in anticipo per i revival. Tutto questo rende "Underwater Moonlight" un disco fresco, sincero, autentico. Niente astuzie, solo urgenza e fortissima ispirazione.
Se non ce l'avete cercatelo, non fate i sofistici sui suoni e imparate a capire quanto sia particolare, bello, colorato, umorale, punk. Rendetevi conto dell'aggettivo "alternativo" nella vituperata formula "rock alternativo".
Dicevo, dev'essere proprio stata opera del destino.
Io ho una specie di deformazione autistica: quando compro un disco (sia esso CD o vinile), se esso porta uno sticker in copertina, io religiosamente ritaglio parte del cellophane dove l'adesivo è appiccicato, e lo conservo gelosamente nella busta interna. Tutte le volte che vedo qualcuno che apre con furia un disco e magari appallottola e getta il cellophane con sopra il bollino "features the hit single blablabla" oppure "the new album by pincopallo", soffro e un po' muoio dentro. Lo sticker è parte del prodotto. Gettare via i bollini è come depilare le sopracciglia...
Solitamente conservo anche i voucher per lo scaricamento delle versioni digitali, le cartoline, i cataloghi delle etichette distribuiti come materiale promozionale all'interno dei dischi.
Forse è ancora sindrome dell'accumulo.
Torniamo a noi: dopo l'acquisto arrivo a casa con la mia copia di "Underwater Moonlight" usata, in CD. La scarto dalla bustina protettiva messa dal negoziante, leggo tutto quello che c'è scritto, e guarda cosa ci trovo:


CD, busta, ritaglio del cellophane in copertina con adesivo, voucher per lo scaricamento del materiale extra.
E' stato destino.
Quello che mi chiedo è: "perchè gli hai voluto così bene, perchè l'hai venduto?".
Ad ogni modo, ora è in buone mani, con etichette e tutto. Io ho capito ogni tuo gesto.

mercoledì 10 aprile 2013

ho sentito sti tipi che si chiamano "psichedelia occulta italiana"

Sono tornato a scrivere, con un anno in più sul groppone. Periodo strano, cauterizzazione degli stimoli, poca motivazione, seria considerazione di lasciare alla storia il mio continuo mormorare su dischi e musica ignorata dai più. E' sempre difficile assecondare uno sforzo inversamente proporzionale ai risultati. Negli ultimi giorni ho però ricevuto un paio di attestati di stima che non mi aspettavo, e per un attimo ho sentito addosso un'importanza che francamente non ho.

Però mi ha fatto piacere sapere che i miei mormorii interessano a qualcuno, che qualcuno si aspetta una mia opinione.
Se uniamo a questo il fatto che sto ascoltando parecchia roba nuova, la somma fa "scrivo un altro post".

Allora, a sto giro parliamo della cosiddetta "psichedelia occulta italiana". Uno scenario relativamente nuovo, un manifestarsi di gruppi e dischi aleatori. Difficile (impossibile?) trovare materiale nei negozi, la distribuzione di questi suoni avviene tramite canali secondari, email, posta. Come se si prendesse il treno di internet, rimanendo però nascosti sotto ai sedili delle carrozze. E questo è solo positivo.

Dicevo, c'è tutto un sobbollire di gruppi, c'è una poderosa produzione discografica (prevalentemente in vinile), c'è un fermento lungo tutta la penisola.

Una notizia buona e una cattiva sulla "cosiddetta psichedelia occulta italiana" (e la chiameremo CPOI, per comodità).

Quella cattiva: tutto lo scenario attinge in qualche modo al passato, il morbo della retromania lascia qualche linea di febbre su tutte le produzioni. Sun Ra, La Monte Young, Magma, Psychic TV, Embryo, Ornette Coleman, il Krautrock tedesco dei 70s, Nusrat Fateh Ali Khan, Pauline Oliveros, Spacemen 3, Fela Kuti: molti dei gruppi appartenenti al movimento mostrano chiarissimi riferimenti agli artisti sopra citati, in un crogiolo etnico-sperimentale che non brilla certo per pionierismo.

Quella buona (che bilancia e porta in positivo quella cattiva): è un fenomeno nato e sviluppato in Italia. E', se vogliamo, una naturale espansione della cosmogonia prog italiana, tradizione che ha preso ispirazione dall'estero e ne ha superato i limiti.

Qui ovviamente non si parla di prog, ma le analogie storiche e temporali sono molte.

La nostra forza è la contraddizione: in Italia c'è la spinta verso le metropoli europee, ma c'è anche un risvolto pagano, un cromosoma mediterraneo che non si può camuffare. La nostra è ancora una cultura fertile, seppur sepolta a livello di superficie. A livello sotterraneo, forse anche grazie all'obbligatorio "downshifting" imposto dai tempi di crisi, c'è una bella tendenza a guardare nel proprio orto, magari allargando gli orizzonti a sud-est, dimenticando l'occidente avvelenato e in declino.

I gruppi appartenenti alla "CPOI" attingono a piene mani ad un immaginario transnazionale, dall'Africa alla mitteleuropa, attraverso quella lingua di terra che è il nostro confine geografico. E dipingono un'Italia magnetica, criptica, incarnata nella natura e nella sua simbologia.
L'estetica delle stesse band è spesso quella di celare, nascondere identità, disseminare l'apparato iconografico di simboli, e fare presa sull'antropologica curiosità di alcuni.

Oppure sul "brivido massonico" che pervade una frangia di hipsters con la fascinazione per l'occultismo, ma questo è un altro discorso, e tra pochi mesi sarà dimenticato.

Ebbene, in breve ho iniziato a procurarmi qualche uscita, e in pratica adesso mi ritrovo ad ascoltare musica totalmente free-form, dimenticando per un po' la canzone e tutto quello che ne consegue.

Mi sento abbastanza a mio agio, soddisfatto sia dalla cura degli oggetti (gli LP, i rari CD, e da ieri anche un fantastico 10" con copertina in alluminio rigido inciso, un bellissimo regalo) che dalla totale libertà del suono.
Senz'altro tra i migliori ci sono gli Squadra Omega, in un certo senso più legati al "rock" (anche se di rock c'è effettivamente poco), duri, precisi, visionari. Poi La Piramide di Sangue (in un certo senso affini alla Squadra Omega, seppur più orientaleggianti), le folli litanie drone degli Eternal Zio (!!!), la concezione afrocentrica propugnata da Al Doum & The Faryds e In Zaire, e l'impatto frontale di gente come i Cannibal Movie (che devo assolutamente approfondire). C'è anche molta altra materia, ma spesso rarefatta, troppo volatile, pretenziosa. Al momento questi nomi mi sembrano i più solidi. E sono anche quelli che mi sono procurato. 

Sicuramente c'è altro di valido, ma non ho francamente troppo tempo per indagare.

Io, come sempre, arrivo in ritardo, e il mio consiglio è di prendere questa scena per i capelli ora, prima che sia troppo tardi, prima che il mercato (sarebbe meglio dire il suq) venga inondato da epigoni, da sovraesposizione, da hype. Il rischio c'è e in questi casi è come aprire il forno con la torta in cottura: tutto si sgonfia e diventa immangiabile.

Tuttavia questo è un segnale positivo, che lancia una speranza per il futuro del "costruire suono" in Italia. Al momento, attraverso etichette come la Black Sweat Records, la Boring Machines, la Macina Dischi, la Sound Of Cobra è possibile mettersi in casa oggetti di culto e suoni davvero avulsi dal concetto contemporaneo di musica.

La chiave potrebbe essere vedere l'Italia sotto una prospettiva diversa, invece di collocarla lamentosamente nel "terzo mondo musicale", è forse il caso di prendere coscienza della realtà e sfruttare questa dislocazione arretrata per riscoprire i nostri caratteri ancestrali, mescolandoli con immaginari musicali meno consueti.
Siate avanti, ascoltate avanti.

domenica 17 febbraio 2013

Ho sentito sti tipi che se non me lo dicevi tu col cacchio che li ascoltavo.

Ieri dopo un'era geologica che non capitava, sono tornato a trascorrere un pomeriggio nel negozio di dischi in cui ho passato molto tempo negli anni passati.
Tornando a casa mi sono reso conto di quanto sono diventato "stupido", musicalmente parlando, a rincoglionirmi su internet a cercare qualcosa di buono da ascoltare, nel dorato isolamento del salotto wireless, piedi sul tavolino, con carta di credito e decine di siti e di outlet digitali davanti agli occhi.
Quante volte, dopo magari una giornata di merda, mi son detto: "stasera mi compro un bel disco nuovo e vaffanculo", e quante volte mi son trovato a chiudere il portatile con la bocca asciutta, i soldi ancora sulla carta e tremila siti e blog aperti nel browser. E nessun disco da aspettare nella cassetta delle lettere.
Ebbene, in qualche modo, stare a casa in pantofole ti fa diventare parte del clustering della rete: sanno chi sei, sanno cosa compri, e ti suggeriscono sempre le stesse cose. Mi piacciono gli Oasis? E allora tutti sotto a suggerirti Jake Bugg, o i Kasabian, o chissà chi altro. Ti piacciono i Chemical Brothers? E allora sotto con tutta l'ultima elettronica-dubstep-glitch sailcazzo...
Su facebook ognuno c'ha i suoi trip, e sulla bacheca girano sempre gli stessi video, dalla band garage ultraimpolverata all'ultima sensazione indie-pop, e spesso gli "amici" sono così mostruosamente prevedibili...
I siti internet parlano tutti degli stessi fenomeni, anche minuscoli, ma fenomeni. Ci sono Pitchfork, Rockit, Sentireascoltare, tutti molto informati e precisi (specialmente l'ultimo), ma tutti così intangibili.
Sembra che i generi, su internet, siano tutti destinati a convergere, alla facciazza della libertà di parola, della rete come mezzo ultrademocratico.
Come se andassi a pescare con una rete a maglie troppo larghe, che la butti per tutta la notte e al mattino la raccogli vuota.
Intanto, sulla barca di fianco magari succedono cose miracolose: ieri, al negozio di dischi, ho sentito almeno 10 nomi di band che non avevo mai sentito, che l'intelligenza della rete e dei cookies che costantemente monitorizzano la mia attività e i miei interessi non hanno mai avuto l'arguzia di propormi.
Ieri da W ho comprato il disco dei Breathless, che non li conosci se non sei veramente dentro a certe cose. Etichetta microscopica, disco uscito in sordina, ma grande qualità, e, soprattutto, centro pieno con "quello che ho voglia di sentire oggi".
Potrebbe sembrare il solito discorso da (quasi) quarantenne che non ha mai accettato fino in fondo il progresso, ma sarà capitato anche a voi, almeno una volta?
E' necessario frequentare gente vera, che i dischi se li compra, che gode se ha pescato il pesce giusto e s'incazza se ha pescato quello che sa di fango, e soprattutto si rende indipendente da quanto esce costantemente dalla rete, così fratturata ma così prevedibile. L'immagine dell'undeground prodotta dalla rete è ignorante, e l'output di uno strumento di marketing studiato per il mainstream e applicato ad un ambiente in cui non dovrebbe funzionare.
Un altro aspetto: e se io avessi anche voglia di cambiare, di tanto in tanto? Se fossi uno di quelli che ha preso il biglietto per i Blur ma che sto weekend ha voglia di ascoltare roba tipo i Death In June?
Non mi sento schizofrenico o ultra-hipster, ma a volte ste sfuriate mi vengono... altrimenti non avrei i Minor Threat insieme ai Baustelle nella mia collezione...
Al negozio, sicuramente c'è qualche disperato che ti capisce, che magari la settimana scorsa ha mandato affanculo i Pastels e si è comprato un disco dei Doom e degli Extreme Noise Terror.
E poi... scartabellando tra la scatola delle novità, non mi succedeva da tempo di pensare "cazzo questi li devo sentire". Credetemi, non voglio fare lo snob, magari poi di tutto sto carrozzone torno a casa con un prevedibilissimo disco dei Buffalo Springfield, ma, ancora una volta, il fattore umano è indispensabile.
E' una piccola cosa, ma vedere come funziona un sabato pomeriggio nel negozio di dischi giusto è ancora vedere come possono circolare libere le informazioni, come sotto la crosta di ghiaccio della crisi ci sia ancora un mondo che non si arrende, e da anni continua a cercare, ad ascoltare e a scambiare.
E' ora di finirla di comprare dischi di merda dopo aver sentito due pezzi scoreggiati dalle casse del pc.
E tutto questo lo scrivo su internet.
Che contraddizione.
Ma io in un equilibrio ci credo ancora.