domenica 17 febbraio 2013

Ho sentito sti tipi che se non me lo dicevi tu col cacchio che li ascoltavo.

Ieri dopo un'era geologica che non capitava, sono tornato a trascorrere un pomeriggio nel negozio di dischi in cui ho passato molto tempo negli anni passati.
Tornando a casa mi sono reso conto di quanto sono diventato "stupido", musicalmente parlando, a rincoglionirmi su internet a cercare qualcosa di buono da ascoltare, nel dorato isolamento del salotto wireless, piedi sul tavolino, con carta di credito e decine di siti e di outlet digitali davanti agli occhi.
Quante volte, dopo magari una giornata di merda, mi son detto: "stasera mi compro un bel disco nuovo e vaffanculo", e quante volte mi son trovato a chiudere il portatile con la bocca asciutta, i soldi ancora sulla carta e tremila siti e blog aperti nel browser. E nessun disco da aspettare nella cassetta delle lettere.
Ebbene, in qualche modo, stare a casa in pantofole ti fa diventare parte del clustering della rete: sanno chi sei, sanno cosa compri, e ti suggeriscono sempre le stesse cose. Mi piacciono gli Oasis? E allora tutti sotto a suggerirti Jake Bugg, o i Kasabian, o chissà chi altro. Ti piacciono i Chemical Brothers? E allora sotto con tutta l'ultima elettronica-dubstep-glitch sailcazzo...
Su facebook ognuno c'ha i suoi trip, e sulla bacheca girano sempre gli stessi video, dalla band garage ultraimpolverata all'ultima sensazione indie-pop, e spesso gli "amici" sono così mostruosamente prevedibili...
I siti internet parlano tutti degli stessi fenomeni, anche minuscoli, ma fenomeni. Ci sono Pitchfork, Rockit, Sentireascoltare, tutti molto informati e precisi (specialmente l'ultimo), ma tutti così intangibili.
Sembra che i generi, su internet, siano tutti destinati a convergere, alla facciazza della libertà di parola, della rete come mezzo ultrademocratico.
Come se andassi a pescare con una rete a maglie troppo larghe, che la butti per tutta la notte e al mattino la raccogli vuota.
Intanto, sulla barca di fianco magari succedono cose miracolose: ieri, al negozio di dischi, ho sentito almeno 10 nomi di band che non avevo mai sentito, che l'intelligenza della rete e dei cookies che costantemente monitorizzano la mia attività e i miei interessi non hanno mai avuto l'arguzia di propormi.
Ieri da W ho comprato il disco dei Breathless, che non li conosci se non sei veramente dentro a certe cose. Etichetta microscopica, disco uscito in sordina, ma grande qualità, e, soprattutto, centro pieno con "quello che ho voglia di sentire oggi".
Potrebbe sembrare il solito discorso da (quasi) quarantenne che non ha mai accettato fino in fondo il progresso, ma sarà capitato anche a voi, almeno una volta?
E' necessario frequentare gente vera, che i dischi se li compra, che gode se ha pescato il pesce giusto e s'incazza se ha pescato quello che sa di fango, e soprattutto si rende indipendente da quanto esce costantemente dalla rete, così fratturata ma così prevedibile. L'immagine dell'undeground prodotta dalla rete è ignorante, e l'output di uno strumento di marketing studiato per il mainstream e applicato ad un ambiente in cui non dovrebbe funzionare.
Un altro aspetto: e se io avessi anche voglia di cambiare, di tanto in tanto? Se fossi uno di quelli che ha preso il biglietto per i Blur ma che sto weekend ha voglia di ascoltare roba tipo i Death In June?
Non mi sento schizofrenico o ultra-hipster, ma a volte ste sfuriate mi vengono... altrimenti non avrei i Minor Threat insieme ai Baustelle nella mia collezione...
Al negozio, sicuramente c'è qualche disperato che ti capisce, che magari la settimana scorsa ha mandato affanculo i Pastels e si è comprato un disco dei Doom e degli Extreme Noise Terror.
E poi... scartabellando tra la scatola delle novità, non mi succedeva da tempo di pensare "cazzo questi li devo sentire". Credetemi, non voglio fare lo snob, magari poi di tutto sto carrozzone torno a casa con un prevedibilissimo disco dei Buffalo Springfield, ma, ancora una volta, il fattore umano è indispensabile.
E' una piccola cosa, ma vedere come funziona un sabato pomeriggio nel negozio di dischi giusto è ancora vedere come possono circolare libere le informazioni, come sotto la crosta di ghiaccio della crisi ci sia ancora un mondo che non si arrende, e da anni continua a cercare, ad ascoltare e a scambiare.
E' ora di finirla di comprare dischi di merda dopo aver sentito due pezzi scoreggiati dalle casse del pc.
E tutto questo lo scrivo su internet.
Che contraddizione.
Ma io in un equilibrio ci credo ancora.

lunedì 4 febbraio 2013

Ho sentito sti tipi che si chiamano La Fury

La cosa migliore è quando un gruppo ti fa venir voglia di ascoltare un genere (o un non genere) decisamente fuori dalle tue corde.
In passato ho trascorso anche io le mie giornate a sfondare i dischi di Kyuss, Sleep, Monster Magnet e roba così. Giorni lontani, ricordi neanche troppo belli di tutto quello che ci stava intorno, e conseguente abbandono di quel tipo di sonorità.
Poi qualche breve flashback, magari non proprio "a fuoco", tipo quando uscirono i Mars Volta, ma non posso certo dire di avere decine di dischi "stoner related" nella mia collezione.
E forse è proprio per questo che apprezzo il lavoro dei La Fury: italianissimi, quasi vicini di casa, come gli Ziz.
Il loro è un suono molto contaminato: ci sono le chitarre macignose, alla Josh Homme, coi riff circolari e pestoni, ma sono immerse in un contesto meno prevedibile.
Ormai ad ascoltare un disco dei QOTSA sai già quasi dove ci sarà il cambio di tempo, dove si spalmerà l'ennesima filastrocca drogata di Homme.
Il bello dei La Fury è che prendono parte dell'impianto "duro", ma ci ricamano sopra con una grande personalità. Si vede che "ci stanno dietro" con impegno e passione. Se contiamo che il promo che mi hanno passato è stato registrato in presa diretta, beh, non si può dire certo che siano novellini con un'infatuazione momentanea...
Le composizioni dicevo sono molto articolate, nonostante i numerosi cambi di tempo e di atmosfera c'è sempre un impasto melodico che non annoia, e permette di "tenere il segno" senza perdere attenzione. Sono precisi, a tempissimo, spietati sui riff e nitidi sulle aperture. Le chitarre sono spedite, compatte, si intrecciano in modo prezioso ma non pretenzioso. La voce è il tocco finale per un gruppo che sembra avere già una personalità spiccata: non lontana dalla timbrica alla Alice In Chains e capace di variazioni vicine all'hardcore, aderisce sempre ad una personalissima sobrietà.
Il suono dei La Fury, pur essendo sfaccettato e rumoroso, si discosta totalmente da certi ascolti che un appassionato di stoner molto spesso si autoinfligge.
C'è qualcosa che che ti spinge a premere ancora "play", perchè nei La Fury trovi  volume, ma anche spezzature e melodie.
I ritorni dagli episodi più veloci sono sempre appassionanti, diluiti da chitarre quasi pulite, e i cambi di paesaggio sonoro sono ben dosati, mai fini a se stessi.
Forse farò rabbrividire i ragazzi con queste parole, ma i La Fury, pur essendo molto "duri", hanno un cromosoma "pop": niente di commerciale, niente di prevedibile, però c'è qualcosa che ti si piazza in testa, i pezzi hanno un filo, in mezzo ad una struttura tutt'altro che semplice.
E' un po' difficile da spiegare, ma quello che voglio dire lo si capisce ascoltando le canzoni. Fatevi un giro sulla loro pagina facebook o su reverbnation (http://www.reverbnation.com/lafury), e sarà tutto più chiaro. La musica buona deve ricominciare ad arrivare dal basso: i La Fury hanno radici solide e sono pronti a rompere il terreno desertico così caro al loro immaginario.